Il gioco nelle sue varie forme è un fattore di sviluppo essenziale durante l’infanzia: non solo aiuta il bambino a conoscere il mondo ma è anche una forma di esperienza emotiva, di comunicazione e di azione che permette di modificare la realtà circostante (Baumgartner, 2002).

Il gioco e lo sviluppo del bambino sono in stretta relazione: il bambino utilizza nel gioco le abilità già acquisite, consolidandole e rendendole più sofisticate, e allo stesso tempo giocando si sperimenta in nuove abilità funzionali allo sviluppo.

L’attività ludica infatti contribuisce ad incrementare le abilità cognitive, sociali e motorie favorendo anche una sempre maggior competenza emotiva e linguistica (Thibodeau et al., 2016).

Dalle numerose osservazioni effettuate dai ricercatori e considerando molteplici teorie oggigiorno è possibile affermare che il gioco, nelle sue modalità e nei materiali coinvolti, è presente già nelle prime fasi di sviluppo del bambino e dal punto di vista sociale si evolve progressivamente con la crescita.

Con il prosieguo dello sviluppo infatti il tempo che il bambino dedica all’esplorazione di ciò che lo circonda diminuisce sempre più ed aumenta il tempo del gioco vero e proprio, che diventa possibile nel momento in cui un oggetto è già ritenuto famigliare.

Il famoso psicologo Jean Piaget (1945) affermava che il gioco vero comincia nel momento in cui le azioni del bambino non sono più finalizzate ad apprendere, capire o cercare la soluzione ad un problema ma sono dovute al piacere personale di mettere in pratica attivamente ciò che è già stato osservato ed imparato.

Emma Baumgartner nel suo libro “Il gioco dei bambini” (2002) descrive molto bene come si evolve il gioco nell’età evolutiva. Inizialmente nel primo anno di vita il bambino inizia ad orientarsi nella realtà che lo circonda ed acquisisce una buona conoscenza dell’ambiente circostante esplorando attentamente il proprio corpo e le proprie capacità di movimento, manipolando gli oggetti che vede ed interagendo con la sua famiglia.

Foto di mamma e bimbo che parlano tra loro

Verso i 2-3 mesi l’infante inizia a sorridere e ridere compiendo determinate azioni, una caratteristica tipica del gioco; comincia anche a vocalizzare in risposta agli stimoli esterni proposti o creati dagli adulti di riferimento. In questo periodo è proprio il gioco vocale ad essere una tra le attività in cui il bambino si sperimenta attivamente: compie assieme al genitore i cosiddetti protodialoghi, definiti così perché gli scambi vocali sono organizzati in attività/pause e i turni si alternano come in un dialogo.

Nel primo semestre l'interazione sociale più frequente è l’osservazione reciproca tra bambino e genitore. Stern (1977) definisce come “momenti ludici” (periods of play) gli eventi interpersonali durante i quali il genitore e il bambino rivolgono la loro attenzione in modo reciproco esprimendo gioia.

La mamma o il papà attivano una serie di comportamenti di gioco in relazione diadica come vocalizzazioni, espressioni del volto, stimolazioni tattili del corpo del bimbo finché verso i 5-6 mesi il bambino inizia a cercare da sé l’interazione prendendo l’iniziativa e gli oggetti attorno a lui diventano parte del gioco con l’adulto: il gioco diventa quindi triadico.

Con il gioco triadico il bambino comincia a porre attenzione non solo al genitore ma anche all’oggetto con cui viene intrapreso il gioco (es. di giochi sono sfogliare assieme al genitore un libro, lanciare un oggetto e raccoglierlo, costruire qualcosa…). L’oggetto del gioco inizialmente viene esplorato attentamente e  gradualmente inizia a essere manipolato per poi far parte di un’attività ludica.

L’esplorazione e il gioco quindi non si verificano allo stesso tempo: il gioco inizia quando si è concluso l’effetto novità e il bambino ha famigliarità con l’oggetto (Baumgartner, 2002).

Quest’ultimo aiuta a far sì che la comunicazione genitore-bambino si evolva diventando sempre più articolata, permettendo di automatizzare alcune routine d’azione; e poiché l’oggetto viene manipolato dal bambino svolge anche un ruolo fondamentale nell’incrementarne le abilità relative all’attenzione e alla risoluzione dei problemi (Clearfield et al., 2014).

Bruner (1983) definisce tali situazioni, in cui vi è la presenza del genitore, del bambino e dell’oggetto, “giochi sociali” perché coinvolgono due persone e prevedono una regola che emerge con la ripetitività delle azioni (es. nel gioco prendere/dare un oggetto dopo che il bambino ha preso l’oggetto lo ridà al genitore per continuare il gioco, non lo tiene per sé, perché capisce la regola sottostante).

Risulta chiaro che anche qui il gioco prevede delle sequenze d’azione così il bambino inizia a farsi delle aspettative su cosa accadrà da lì a poco: ad esempio nel gioco del cucù grazie alla ripetizione delle sequenza di azioni il bambino poi si aspetta di veder ricomparire ciò che è stato nascosto.

Bruner afferma che i giochi sociali sono molto importanti nello sviluppare il linguaggio, in quanto genitore e bambino fanno giochi costituiti da esso; i giochi sociali sono “la prima opportunità di esplorare come far fare delle cose con le parole” (Bruner, 1983).

Tra i 9 e i 12 mesi vi è una nuova fase in cui il gioco viene riorganizzato: il bambino cominciando a parlare richiama in modo volontario i genitori che reagiscono positivamente alle sue iniziative. In questo periodo diminuiscono le stimolazioni fisiche e tattili che i genitori fanno al bambino per lasciar spazio ad una diversa modalità di interazione (Caneva, Venuti 1998).

Verso i 2 anni, con il maggior controllo motorio e l’incremento delle capacità relative al linguaggio, il bambino diventa più indipendente e i genitori iniziano a giocare con lui prevalentemente in due modalità: il papà solitamente è più orientato a intraprendere giochi di movimento, mentre la mamma è incline a fare giochi più tranquilli rivolti prevalentemente alla didattica e alla stimolazione verbale (Bornstein, 1996).

In questa fase il bambino inizia ad elaborare il cosiddetto gioco simbolico o immaginativo, ossia un’attività ludica di carattere sociale costituita da un insieme di comportamenti di simulazione relazionati a oggetti che sostituiscono quelli reali (es. “facciamo finta che questo astuccio è il telefono di casa!”). Con il gioco simbolico il bambino riprende temi della sua quotidianità per trasformare la sua realtà sociale e fisica (Fein, 1984).

Il gioco simbolico dimostra quindi la capacità di rappresentazione mentale del bambino; inizialmente è il bambino stesso il protagonista delle azioni ma gradualmente farà partecipare attivamente anche l’interlocutore/oggetto (es. è il peluche che parla, mangia, va a scuola ecc). Con il passare del tempo e con l’esperienza di gioco il bambino elabora un gioco simbolico sempre più complesso ed articolato, necessitando sempre meno di oggetti realistici per giocare poiché la sua capacità di effettuare trasformazioni simboliche si sviluppa notevolmente organizzando anche le azioni in sequenze ordinate, in storie.

Dai 3 anni circa avvengono nuovi cambiamenti; a questa età il bambino comincia ad elaborare giochi non solo basandosi sulla sua esperienza quotidiana ma introduce anche temi di fantasia (i personaggi interpretati sono spesso tratti dai libri e dai cartoni animati) e comincia a condividere il gioco con tanti altri bambini assumendo dei ruoli precisi (es. “facciamo che io sono il dottore e tu il paziente!”). Il gioco di fantasia è l’esperienza ludica tipica dell’età prescolare, determinata da delle regole che vengono concordate dai bambini con lo svolgimento del gioco.

E’ importante ricordare che nell’età prescolare è tipico e fondamentale anche il gioco basato sul movimento libero e sull’esperienza diretta con l’ambiente; con la motricità spontanea senza vincoli e la libera espressione il bambino sviluppa progressivamente una motricità armoniosa e una padronanza del proprio corpo.

Inizialmente è auspicabile aiutare il bambino a sintonizzarsi con il suo ritmo personale e successivamente permettere che egli si sperimenti da sé, senza forzare le acquisizioni motorie poiché come afferma Le Boulch (2008) ogni bambino ha una maturazione dei centri nervosi diversa che deve essere sostenuta ma rispettata.

Successivamente verso l’età scolare viene utilizzata spesso una nuova tipologia di gioco: il gioco con regole. E’ una modalità basata su delle precise regole da rispettare, comunicate chiaramente all’inizio del gioco, che devono essere accettate dai partecipanti che sono almeno due. I giochi di questo tipo solitamente hanno dei nomi (es. “battaglia navale”, “nascondino” cc..), sono molto più strutturati, spesso si tramandano venendo insegnati dagli adulti e si differenziano dalle attività precedenti poiché hanno un obiettivo finale, ossia vincere la gara/partita permettendo quindi al bambino di sfidare gli altri e sé stesso applicando le sue abilità e potenzialità.

Sempre in età scolare inoltre sono molto utilizzati anche i videogiochi, che attraggono i bambini perché coinvolgono attivamente il giocatore e presentano una componente di sfida con differenti livelli da superare, anche complessi, in cui è possibile mettersi alla prova (Greenfield, 1984).

Considerando tutta l’evoluzione del gioco negli anni e vedendo i numerosissimi effetti positivi sul benessere del bambino si può comprendere come il gioco sia fondamentale per un ottimale sviluppo psicofisico, un vero e proprio impegno quotidiano irrinunciabile; fondamentale è quindi il tempo che il bambino deve dedicare alle attività ludiche sia in autonomia che condividendone fantasia ed entusiasmo con gli amici, i nonni ma soprattutto con mamma e papà, ogni giorno.

 

FONTI DI RIFERIMENTO:

  • Baumgartner, E. (2002). Il gioco dei bambini, Carocci editore S.P.a., Roma.
  • Bornstein, M.H. (1996). La relazione madre bambino in una prospettiva cross-culturale, in P. Venuti, F. Giusti, Madre e padre, Giunti, Firenze.
  • Bruner J. (1983). Child’s talk. Learning to use language, Norton, New York (trad. it. Il linguaggio del bambino, 1987, Armando, Roma).
  • Caneva L., Venuti P. (1998). Stile materno e stile paterno nel gioco con i figli: uno studio osservativo a tre e a tredici mesi, Psicologia Clinica dello Sviluppo, 2, pp.305-25.
  • Clearfield M.W., Bailey L.S., Jenne H.K., Stanger S.B. e Tacke N. (2014). Socioeconomic status affects oral and manual exploration across the first year. Infant Ment. Health J., 35, 63–69. 
  • Greenfield, P. (1984). Mind and media. The effects of television, computers and video games, Fontana, Aylesbury (trad. it. Mente e media, 1985, Armando, Roma).
  • Le Boulch, J. (2008). Lo sviluppo psicomotorio dalla nascita a 6 anni. Conseguenze educative della psicocinetica nell’età prescolare, Armando Editore, Roma.
  • Piaget, J. (1945). La formation du symbol chez l’ enfant, Delachaux et Niestlè, Neuchatel (trad. it. 1972, La formazione del simbolo, La Nuova Italia, Firenze).
  • Stern, D. (1977). The first relationship: Infant and mother, Fontana Open Books, London (trad it. 1979, Le prime relazioni sociali: il bambino e la madre, Armando, Roma).
  • Thibodeau R.B., Gilpin A.T., Brown M.M. e Meyer B.A. (2016). The effects of fantastical pretend-play on the development of executive functions: an intervention study, J. Exp. Child Psychol., 145, 120-138.

Ritratto di Chiara Alberton

Posted by Chiara Alberton

Mi chiamo Chiara Alberton e sono una giovane psicologa residente in provincia di Treviso, Veneto. La mia passione per la psicologia è sempre stata presente fin da piccola e grazie agli studi universitari e ai numerosi tirocini effettuati presso centri specializzati e reparti ospedalieri ho potuto fare esperienza diretta con molte realtà differenti. Negli anni universitari ho scelto di approfondire soprattutto la psicologia cognitiva e la psicologia dell’età evolutiva, che riguarda i bambini e i giovani adulti. Conclusa l’università ho conseguito l’abilitazione per poter operare come operatrice di training autogeno somatico e  ho lavorato come tutor dell’apprendimento anche con bambini con DSA; tale esperienza mi ha condotta a perfezionarmi nella psicopatologia dell’apprendimento con un master universitario di II livello al fine di poter sostenere al meglio i bambini con difficoltà di apprendimento e le loro famiglie.

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