Settembre è per antonomasia il mese dei buoni propositi e, per quanto riguarda la scuola, non c’è genitore o studente che non si chieda come ricominciare o iniziare al meglio. Una preoccupazione che spesso è più intensa per le famiglie dove siano presenti studenti con DSA e che può investire, come un’onda anomala, quelle famiglie che invece improvvisamente si ritrovano a fare i conti con difficoltà inattese e, spesso senza preavviso, proiettati nel mondo dei DSA.

Cosa sono i DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento)

Si tratta di difficoltà specifiche di origine neurobiologica che si ripercuotono sulle normali abilità motorie e scolastiche, in modo più o meno importante, in un quadro di sviluppo intellettivo normale. Come dice la legge 170/2010 (“Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico”)  tali disturbi “si manifestano in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali, ma possono costituire una limitazione importante per alcune attività della vita quotidiana”.

Sono caratterizzati principalmente da difficoltà ad effettuare una lettura accurata e fluente (dislessia), da difficoltà grafo-motorie e nell’abilità di scrittura (disgrafia e disortografia) e da difficoltà legate all’apprendimento del sistema dei numeri e dei calcoli (discalculia).

Avere un disturbo specifico dell’apprendimento non compromette la capacità di apprendere; si apprende, ma in maniera differente rispetto alle metodologie comuni di insegnamento. Per questo motivo, spesso gli studenti con DSA sono refrattari alla didattica tradizionale. E’ importante e fondamentale quindi adottare strumenti specifici per tali difficoltà, che consentano loro di ottenere risultati soddisfacenti, dando spazio al loro reale potenziale, senza che rendimento e autostima ne siano danneggiati. Scuola e famiglia sono coinvolte in questo percorso, hanno entrambe dei doveri (come esplicitato nelle leggi a riguardo), al fine di assicurare “il successo scolastico per garantire una formazione adeguata e promuovere lo sviluppo delle potenzialità” (Linee Guida MIUR 2011).

Cosa non sono i DSA

I Disturbi Specifici di Apprendimento NON sono una malattia. Questo deve essere ben chiaro, per poter produrre strategie efficaci per consentire il successo scolastico.

I DSA inoltre NON sono colpa di nessuno. Non sono colpa nostra, non sono colpa degli insegnanti, non sono soprattutto colpa dei nostri figli, ai quali dobbiamo dare sostegno e fiducia e allontanare il più possibile da loro l’idea che questi li rendano diversi dagli altri in un’accezione negativa.

Prima della diagnosi – I campanelli di allarme

Non è immediato e a volte nemmeno producente associare alcune difficoltà quotidiane ai DSA, soprattutto in età prescolastica e nei primi anni di scuola, quando è assai più saggio tenere presente che ogni bambino e bambina ha i propri tempi di apprendimento. Mediamente, si stima che sul 20% di alunni che presentano una difficoltà di apprendimento, solo 3/5 hanno un effettivo Disturbo Specifico di Apprendimento.

Per una diagnosi certa è necessario rivolgersi a un team di esperti, tuttavia ci sono alcuni segnali che possono far scattare un campanello di allarme, sempre considerando l’età.

Bambine e bambini con DSA possono ad esempio mostrare difficoltà nelle attività di motricità fine, come allacciarsi le stringhe delle scarpe o i bottoni, e nel tenere correttamente in mano gli strumenti di scrittura e disegno; una caratteristica abbastanza comune è la poca propensione a colorare.

Possono essere ambidestri, confondono spesso la destra con la sinistra e, in generale, i loro movimenti appaiono scoordinati.  L’attenzione è spesso un optional, così come l’ordine, la concentrazione e la memoria a breve termine. Hanno difficoltà nel memorizzare informazioni ordinate in sequenza, come i giorni della settimana, i mesi, le note musicali, l’alfabeto e le tabelline; hanno un senso del tempo non lineare (per molto tempo mio figlio ha attribuito ogni evento della sua infanzia a “quando avevo due anni”) e hanno difficoltà nel leggere l’orologio analogico; faticano a organizzare il tempo e lo spazio e loro stessi all’interno di spazi temporali o fisici.

Per aiutare mio figlio ad avere un’idea meno astratta del tempo, ricorrevo ad esempi concreti e precisi di “quantità di tempo”. Chiedergli di aspettare 10 minuti era uguale a chiedergli di non aspettare affatto o significava creargli un disagio che rendeva impossibile aspettare anche 5 secondi. Chiedergli invece di aspettare 15 minuti “come un tempo della partita di basket” gli dava un’immagine più chiara e per lui fisicamente reale e quindi meno fonte di ansia.

Sono in genere molto vivaci, chiedono spesso attenzione verso quelle attività che sentono di saper svolgere bene (mi passano ancora davanti agli occhi, in fila come soldatiti, le centinaia di mattoncini Lego di ogni colore, forma, dimensione), probabilmente per bilanciare quegli ambiti in cui si sentono meno sicuri. In generale, preferiscono l’ascolto più della lettura autonoma, sperimentare nella pratica più che apprendere dalla teoria; amano le immagini più delle parole.

Immagine di bimbo che prende strane posizioni per guardare la tv, può essere un segnale di DSASvolgono spesso le loro attività in posizioni improprie, che cambiano spesso come punti da una tarantola: leggere e scrivere sdraiati per metà sul tavolo, o sul letto a testa in giù, o con il foglio ribaltato anche di 90 gradi rispetto alla postura corretta; l’impugnatura delle matite non è consona e a volte è così stretta da provocare crampi. Hanno difficoltà con i numeri, nel riconoscerli, identificarli e dare loro un valore di quantità e possono trovare complesso avere a che fare con il denaro e i resti.

Ovviamente, la presenza di queste caratteristiche non è necessariamente indice della presenza di un DSA, mentre un bambino o bambina con un DSA può essere riconosciuto in molte di esse.

 

La diagnosi  

Per la diagnosi è necessario rivolgersi a professionisti.

E’ bene informarsi sulle norme presenti nella propria regione di appartenenza. Qui un link ad una guida abbastanza esaustiva. Consiglio comunque di verificare sempre con le proprie ASL o attraverso gli elenchi dei centri accreditati e tenersi aggiornati sulle norme in vigore.

L’età minima in cui è possibile effettuare una diagnosi certa dei Disturbi Specifici di Apprendimento, secondo le normative, coincide con il completamento del secondo anno della scuola primaria. La formulazione di una diagnosi avviene quindi, di norma, alla fine del terzo anno per poter iniziare con una didattica personalizzata dal quarto anno.

Purtroppo il percorso non è sempre così lineare e non è raro che le segnalazioni arrivino dalla scuola troppo precocemente o tardivamente e spesso sono le famiglie stesse a preoccuparsi di richiedere una valutazione.

La diagnosi è necessaria, e direi fondamentale, per costruire e orientare correttamente un percorso idoneo allo sviluppo delle competenze scolastiche e anche di quelle sportive o legate alle attività quotidiane. Una diagnosi completa, oltre alle caratteristiche proprie dei DSA, riporta anche i punti di forza e fornisce indicazioni e strategie per la scuola e per la famiglia.

Rimandare il riconoscimento di DSA può portare a una serie di “effetti collaterali” come ansia, frustrazione, rabbia, senso di inferiorità, che vanno ad intaccare sia i risultati scolastici quanto la sfera emotiva, l’immagine di sé, l’autostima e il comportamento sociale.

DSA: campanelli d'allarme, diagnosi e strategie di sopravvivenza

 

Dopo la diagnosi

Confrontarsi con le difficoltà scolastiche dei figli non è facile. Non è facile prenderne atto all’inizio, è difficile riuscire ad affiancarli nel percorso scolastico. Quando entrano a scuola ci sentiamo pieni di entusiasmo ed orgoglio e mentre acquistiamo la scatola dei pastelli colorati, ammettiamolo, in realtà abbiamo già in mente le decorazioni per la festa di Laurea. Di fronte a una diagnosi di DSA non serve che crolli il mondo, non è davvero necessario, ma alcune cose devono cambiare. Ad esempio, potrebbe essere richiesto un impegno aggiuntivo al di fuori della scuola e da parte delle famiglie, che non si era messo in conto.

Sovente sorge la domanda “e adesso? come posso essere di aiuto?”.

Senza alcuna pretesa di avere la risposta giusta, o quella giusta per tutti, possiamo vedere insieme alcuni aspetti che sono a volte secondari rispetto allo studio in senso stretto ma che possono fare la differenza.

Condividere e confrontarsi è importante, ed è quello che facciamo qui, nel forum dedicato su Mammeonline.

Un aiuto a casa, ovvero in aggiunta al tempo passato a scuola, può essere indispensabile, ma il tempo per seguirli è tanto necessario quanto troppo spesso un lusso. Inoltre, non sempre si è votati all’insegnamento (o l’avremmo scelto come professione) quindi, prima di rimetterci il fegato e la relazione con i figli, meglio cercare un aiuto esterno, se necessario, o valutare di iscrivere i pargoli a un doposcuola specializzato. Se invece, per svariati motivi, non avete modo di sottrarvi all’arduo compito - come la sottoscritta – sarà utile trovare qualche stratagemma per la sopravvivenza nostra e per non lasciare che i nostri buoni propositi si traducano in una guerra quotidiana con i nostri figli e figlie.

Il nodo cruciale del nostro coinvolgimento sono tipicamente i compiti. Le conseguenze di quando si pronuncia questa parola potrebbero essere valutate utilizzando la scala Richter. Analizzando bene i libri di scuola, sono certa che almeno uno porti tracce di uso improprio, quando ad esempio, per qualche secondo, son passati al ruolo di “oggetti volanti non identificati”.  Vi è successo? Non sentitevi sole.

Diamo subito una definizione ai compiti a casa: sono un allenamento per ciò che si è imparato (o dovrebbero aver già imparato) a scuola. Non siamo noi a dover insegnare, non è il nostro ruolo e se ci accorgiamo che non hanno capito il procedimento delle divisioni non incaponiamoci a insegnarle come le abbiamo imparate noi trenta anni fa: non lo sapremmo fare abbastanza bene e servirebbe solo a confonderli ulteriormente. Cosa si fa? Se abbiamo davanti dei piccoli studenti, si può scrivere una comunicazione per la maestra o il maestro, spiegando la situazione.

Se invece hanno l’età per poterlo fare, cercheranno un ulteriore supporto a scuola. Evitiamo di mortificarli se non hanno capito una cosa che a noi sembra tanto semplice. Se vi accorgete di non saper resistere alla tentazione di pronunciare frasi tipo “ma come fai a non capire?” o “non ci arriverai mai” tenete sul tavolo un bicchiere di acqua e riempitevi la bocca all’occorrenza. Se il compito risulta molto difficile o stancante, meglio rimandare o programmare delle pause. Uscite a fare una passeggiata o a tirare due calci al pallone.

Quando arrivò la diagnosi di mio figlio (ormai in seconda media) decisi di accantonare per un attimo il profitto scolastico (già vacillante) per dedicarmi, con lui, a lavorare sull’organizzazione, sul metodo, sui tempi, sull’individuazione dei suoi punti di forza e per cercare le metodologie più efficaci. Io non sono un’insegnante, sono partita da questo presupposto. Ho potuto aiutarlo in modo proficuo solo dopo aver capito, almeno in parte, quali fossero i suoi canali di apprendimento, facendo tanti tentativi, proponendo vari metodi di studio e osservandolo. 

Non è stato un processo veloce, io non ero un’esperta, molte cose erano nuove anche per me, come costruire le mappe col computer, ma anche solo come costruire una mappa concettuale a mano. Può essere molto utile anche lavorare sulla programmazione del tempo necessario per i compiti (per qualunque tipo di compito, a suo dire, servivano cinque minuti) e sull’organizzazione del materiale: su una parete della sua camera aveva disegnato l’orario scolastico, un metro per un metro e mezzo, ogni materia un colore diverso e libri e quaderni organizzati in contenitori del colore corrispondente.

Crescendo aveva adottato invece le liste con le spunte. Per scandire il tempo durante i compiti e lo studio, mio figlio usava un timer, di quelli da cucina (ma possibilmente silenzioso, perché anche il ticchettio diventa fonte di distrazione). Cronometrare il tempo è utile anche per capire quanto tempo dedicato allo studio è efficace e quando invece diventa tempo sprecato perché l’attenzione è andata in vacanza: quando arrivano a questo punto è davvero inutile insistere, anche se manca l’ultimo esercizio o l’ultimo paragrafo; si rischia di vanificare tutto.

Di fronte a un esercizio può essere necessario leggere ad alta voce la consegna, assicurandosi che i contenuti siano chiari. Possiamo scrivere per loro sotto dettatura (dove non è possibile usare un computer). In queste occasioni specificavo sotto l’esercizio che la grafia era mia ma i contenuti erano di mio figlio, errori compresi che, ovviamente, non spettava a me correggere.

Di fronte a un tema si può parlare dell’argomento, sviluppare insieme delle idee e creare una traccia da seguire. Chi? Dove? Come? Quando? le domande di rito, che già aiutano a formulare un componimento di base. Quali parole puoi usare per parlare di questo argomento? Cerchiamone altre. Hai una esperienza diretta su questo argomento? Cosa provi nel parlarne?

Per le cose da studiare a memoria, noto tasto dolente, mio figlio aveva adottato un sistema di associazioni di immagini. Per ricordarsi parole complesse le suddivideva in parole assonanti più semplici. Così, studiando le capitali europee, Bratislava/Cecoslovacchia era diventata “la vacca brava si lava” e Madrid/Spagna “la madre fa il pan di spagna”. Ci abbiamo riso un pomeriggio, ma il risultato di quella verifica fu sorprendente!

Dopo un anno scolastico sul filo del rasoio sono arrivati i risultati di un metodo di studio che a quel punto era davvero personalizzato. Per essere personalizzato però non deve essere il nostro metodo: noi possiamo proporre e aiutare a sperimentare, ma la firma sul progetto la devono mettere loro, stimolati a trovare essi stessi le strategie migliori.

In ultimo, è indispensabile informarsi, conoscere il mondo dei DSA, la legge, le normative, i regolamenti, i diritti. La diagnosi va letta attentamente, pretendiamo che gli esperti ce la spieghino per bene. Dobbiamo sapere con cosa abbiamo a che fare per poter parlare con i docenti e collaborare alla stesura del Piano Didattico Personalizzato (PDP).  Non tutti i DSA si manifestano allo stesso modo, con le stesse peculiarità e conseguenze: impariamo a conoscere i nostri figli e le nostre figlie.

Non dimentichiamoci di sottolineare con loro tutte le cose in cui sono bravi, fosse anche raccontare barzellette, allevare cavallette o mangiare sei bignè in una volta. Loro lo fanno meglio di chiunque altro. Potenziamo tutto ciò che possono fare da soli, sia inerente alla scuola che in qualunque altra attività. Non obblighiamoli a confrontarsi con i loro insuccessi prima che abbiano acquisito le competenze per affrontarli: inutile, per esempio, costringere un dislessico a leggere pensando che possa migliorare.  

Ritratto di Lorenza Gervasoni

Posted by Lorenza Gervasoni

Lorenza, Lora per le amiche. Approdata su Mammeonline nel lontano 1998 in cerca di condivisione alla nascita di mia figlia, ho trovato appoggio, aiuto, consigli di sopravvivenza e una grande famiglia con cui confrontarsi.Adesso ho due figli che hanno, al momento in cui scrivo, 16 e 20 anni.

Ad entrambi sono stati certificati dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento: discalculia per la grande e l’en plein per il piccolo (dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia).
Non sono un’esperta, o forse sì, un’esperta sul campo: quell’esperienza che se non ti ammazza ti fortifica e che proverò a condividere con voi.
Parliamo di DSA, e dintorni anche nei forum di Mammeonline